Dråpsnatt – “Skelepht” (2012)

Artist: Dråpsnatt
Title: Skelepht
Label: Frostscald Records
Year: 2012
Genre: Atmospheric/Folk Black Metal
Country: Svezia

Tracklist:
1. “Meningslösheten”
2. “Klardrömmar”
3. “Skelepht”
4. “Tonerna Till Vårt Slut”
5. “Échec”
6. “Förruttnelsens Hypostaser”
7. “Valan”
8. “Intigheten”

Dall’alto della convinzione di chi scrive che chi è artisticamente meritevole tenderà in un modo o nell’altro ad arrivare sempre e comunque alle orecchie e al cuore degli ancora ignari appassionati, i Dråpsnatt rappresentano effettivamente una piccola ma illustre eccezione. Giochiamo a carte scoperte: questa è senza dubbio la band preferita del sottoscritto. Un gruppo che è nato, cresciuto (e ad oggi forse anche morto) mentre ero già attivamente appassionato a questo tipo di musica. Di conseguenza, non trattandosi di qualcosa recuperato a posteriori come tutte le più e meno grandi band degli anni Ottanta o Novanta, è venuto a crearsi un particolare legame nell’osservare una formazione dalla sua genesi ed evoluzione dal giorno zero. A questo si aggiunga pure e senza remore che nessun altro gruppo suonava o suona con l’impatto e con la drammaticità che contraddistingue il duo svedese, il quale è rimasto un fenomeno tendenzialmente underground che non sempre -se non mai- ha realmente raccolto quello che ha seminato, come risulta tristemente evidente alla ricerca sul web di discussioni di un tempo che appare ormai lontanissimo. In una retrospettiva a conti fatti di soli dieci anni dall’uscita dell’ultimo esito vitale dei Dråpsnatt, pochissima gente sembrava infatti interessata al duo originario di Skellefteå.

Il logo della band

Eppure, se andiamo ad analizzare il contenuto di “Skelepht”, troviamo a dir poco tutti gli elementi che un appassionato di Black Metal scandinavo potrebbe desiderare: gelo, folklore, melodia, estremizzazione massima e disumana della voce, atmosfera, persino sinfonie; insomma, per farla doverosamente breve ce n’è per tutti i gusti e, volendo aggiungere del carico, ad esaminare ogni singolo elemento il quadro si rivela ancora più completo ed intrigante. Il Black Metal portato in stereo dai Dråpsnatt ha infatti una leggera derivazione melodica di fondo e le qualità compositive di Narstrand riescono a rendere la progressione ed il flusso dei brani sempre assolutamente naturale. Oltretutto, all’interno di “Skelepht” la produzione è di gran lunga migliore rispetto ai precedenti dischi e la distorsione delle chitarre si combina più che mai alla perfezione con gli asfissianti arpeggi puliti che compaiono qua e là all’interno dei brani. Questo moto di distacco tra pulito e distorto, o tra sinfonico e caotico, è solo una (benché non per questo meno importante) delle chiavi per la riuscita e quello che sarebbe dovuto essere un meritato successo delle otto canzoni qui presenti: non v’è infatti modo migliore per contrastare momenti musicalmente riempiti fino all’orlo dalla strumentazione e dal cantato se non alternandoli ad attimi in cui l’intera scena viene svuotata a favore di fraseggi che mettono a disagio nel profondo e sembrano usciti dalle mura di un manicomio. E come si può non associare l’immagine del manicomio, con tanto di pazienti in coro, alla voce di Vinterfader: assoluta punta di diamante alla quale siamo abituati già dai dischi passati, ma che proprio in “Skelepht” grazie a qualche sottile miglioria effettistica riesce ulteriormente ad evolversi e a perforare i timpani di chi ascolta; una sensazione associabile ad un grido disperato in grado di stritolarti le interiora e che, in più di un’occasione, pietrifica la mente per il modo in cui si mostra assolutamente complementare alla strumentazione.
Da questa parziale deviazione sullo stile canoro si evince anche il mood che contraddistingue le desolate lande dråpsnattiane, ovvero che l’ambientazione è in assoluto tra le più angoscianti dal sottoscritto mai sentite in un prodotto musicale, e risulta pertanto chiaro come le influenze della corrente Depressive (seppure qui mai completamente accolta) siano da sempre alla base del progetto. Il senso di disperazione che trasuda nota dopo nota è tuttavia anche frutto del lato più personalmente e squisitamente folkloristico dei Dråpsnatt; non scherzo affatto quando dico che uno dei motivi che mi avvicinarono al debutto “I Denna Skog” del 2009 fu il fatto che venisse etichettato come Black/Folk Metal. Non c’è invero nulla di sbagliato in questa classificazione, ma bisogna altresì specificare che il folklore qui presente non nasce più da sonorità tradizionali o popolari come maggiormente comune nel periodo, quanto piuttosto emerge dall’abilità di unire suoni delicati e raffinati, quasi poveri per come sono estremamente intimistici ed universali al contempo, che sembrano provenire dalla terra, a passaggi ultraterreni di sintetizzatore per consentirci di volare lassù, nelle fredde e incontaminate lande svedesi del duo.

La band

Cosa contraddistingue però i Dråpsnatt dalle altre realtà più simili di quel periodo come ad esempio Domgård, Skogen o Skagos, tutte band senza dubbio capaci dal punto di vista tecnico-compositivo -come si suole dire degli ottimi ‘salaprovari’– ma in larga misura piuttosto innocui sul punto di dover comunicare qualcosa, dimostrandosi incapaci di trasmettere emozioni vere e tendendo a suonare molto distaccate e in alcuni casi fini a sé stesse? Allo stesso modo, dieci anni dopo l’uscita dell’album e al momento in cui scrivo queste righe la situazione non sembra particolarmente migliorata o evolutasi: volendo ad esempio guardare nel solo parallelo e nelle più strette similitudini di linguaggio coi Dråpsnatt, a gruppi di talento come Dauþuz o Heltekvad, che riprendono a modo loro e con successo questo tipo di stile, si nota probabilmente senza fatica come lo facciano comunque in una maniera a tratti più ripetuta, volendo più scontata e prevedibile degli svedesi. Spesso senti già dove l’album voglia andare a parare e non vi è una vera e propria evoluzione interna al disco, ma solo una serie di buoni o talvolta anche ottimi brani. Nel caso di “Skelepht”, al contrario, l’evoluzione e il cambiamento sono costanti importantissime, direi quintessenziali (l’unico parallelo che occorre alla mente è il secondo album degli altrettanto dispersi Aaskereia, “Dort, Wo Das Alte Böse Ruht” uscito l’anno precedente).
Guardando pertanto più da vicino le singole canzoni del disco, già “Meningslösheten” che funge da opener mettendo in mostra un po’ tutto il bagaglio tecnico tra mid e up-tempo, orchestrazioni sia lugubri che ariose e vocalismi che si accavallano parola dopo parola come se dovessero risalire da sabbie mobili, appare un buon esempio. Non bastasse, fin dalla successiva “Klardrömmar” si evince tutta l’importanza e la qualità degli arrangiamenti chitarristici e, soprattutto, possiamo ammirare uno dei principali e più caratteristici trucchetti stilistici di casa Dråpsnatt che consiste nello svuotare completamente l’atmosfera eliminando qualsiasi tipo di suono e lasciando solamente scorrere un arpeggio ed un sintetizzatore. La ricercatezza di questi singoli e complessivi suoni, poi, fa tutta la differenza del mondo: probabilmente in tempi più recenti solo i Secrets Of The Moon (anche loro defunti, e su tutt’altre coordinate estetiche) sono riusciti a colpirmi così tanto a livello di effettistica. Inoltre non è da dimenticarsi che unaltro plus di “Skelepht” rispetto a un “I Denna Skog” o anche allo stupendo “Hymner Till Undergången” è la presenza di Botgast, batterista professionista che regala con delle semplici partiture tutta una dimensione ed una complessità che ancora mancavano ai capitoli precedenti.
La padronanza della componente batteristica consente infatti di avere una maggiore flessibilità nel momento in cui si vanno a sviluppare brani come la title-track, la quale si addentra nei meandri del Doom più drammatico e funereo senza però cadere nel cliché di utilizzare layer e layer di riff sovrapposti, ma piuttosto utilizzando pochi essenziali elementi come le tastiere che riempiono l’atmosfera e soprattutto intensificano ancor di più le urla di Vinterfader. La carica dell’ambientazione non è però un’esclusiva degli escamotage derivati della produzione elettronica e all’interno di “Tonerna Till Vårt Slut” nasce pertanto in maniera del tutto naturale: si tratta di un brano che di per sé non contiene chissà quali ricami o particolarismi, ma funge piuttosto da anello di congiunzione col disco precedente; lo stile di questa traccia è infatti assolutamente riconducibile al pattern compositivo dell’album del 2010 – e se da un lato ne godiamo, dall’altro godiamo il doppio perché è proprio nel paragone tra i due che si notano ancora di più la crescita e le migliorie presenti nelle restanti canzoni di “Skelepht”. Se consideriamo difatti l’album come un menù-degustazione di otto portate, “Échec” è quel piatto inedito che col suo particolare gusto ti prepara ai dolci e alla pasticceria: un breve intermezzo per resettare la bocca e prepararsi a quelle che sono le tre tracce forse persino meglio riuscite dell’intero disco. Ma non si può che usare una mera supposizione, perché il livello generale è talmente alto e soprattutto costante da far splendidamente ricadere tutto nell’alveo del mero gusto personale. Paradossalmente, “Förruttnelsens Hypostaser” e “Intigheten” sono gli unici ed ultimi momenti in assoluto in cui possiamo gioire della presenza del cantato in pulito di Narstrand, elemento che mi ha sempre fatto impazzire per il modo in cui amplifica la componente atmosferica con una naturalezza fuori dal comune; specialmente nella superiore conclusione finale, dove alcuni passaggi sembrano azoto liquido trasformato in musica.

Un saggio, forse io, scriveva svariati anni or sono: “[l]a speranza dunque è che continuino su questa strada, dato che hanno tutte le carte in regola per poter sfornare ottimi lavori ancora per molto tempo”. L’evoluzione di questa coppia di musicisti è chiara all’epoca del 2012 ed è forse ancora più chiara ai giorni nostri, così come è chiaro che “Skelepht” sia in assoluto il prodotto meglio riuscito del gruppo dal punto di vista tecnico. Sicuramente può peccare rispetto al precedente “Hymner Till Undergången” nel suo essere meno viscerale e spontaneo, ma questo sembra perfettamente normale nonché augurabile al netto di un’evoluzione simile, e il risultato finale non per caso è senza dubbio migliore.
Non è possibile, né forse auspicabile, quantificare le persone per lo più silenziose che i Dråpsnatt nella loro apparentemente breve esistenza, con la loro musica che resta quasi un segreto ottimamente custodito, sono riusciti ad impressionare. Sicuramente però hanno impressionato e continueranno ad impressionare me: perché più ascolto i loro dischi e più emerge evidente e fortissima la loro immunità nei confronti del tempo. Per tutti coloro i quali siano in grado di empatizzare con questo tipo di composizioni, la trilogia che gli svedesi ci hanno regalato è qualcosa di davvero immortale ed intoccabile. Non ho volutamente parlato di “Valan”, la penultima traccia di questo loro ultimo disco, sia perché ne consiglio sempre l’ascolto in caso non si conosca la band, sia perché ricalca le sonorità di una “Arvssynd” a me estremamente cara attraverso l’utilizzo delle tastiere come se fossero chitarre ad accompagnare un estemporaneo blast-beat… Un regalo, questa disperata convivenza, tra la calma che esprimiamo rispetto al caos che abbiamo in testa.

Giacomo “Caldix” Caldironi

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